Costellazione di Ercole

 

Citazione tratta da “L'arte d'amare” di Ovidio – vv. 187/188

Bimbo ancora, il Tirinzio con le mani

i due serpenti strangolò, già degno

fin dalla culla di suo padre Giove.

 

 

Citazione tratta da “I Fasti” di Ovidio – I vv. 543/584

Ecco l'eroe portatore di clava compiuto il suo errare

Per il vasto mondo, là conduce i bovini di Eritea

E mentre egli è ospite della casa Tegea,

quelli vagano incustoditi per i vasti campi.

Era il mattino e scosso presto dal sonno il pastore Tirintio

Si accorge che dall'armento mancano due tori.

Messosi alla ricerca, non vede tracce del silenzioso furto:

il feroce Caco li aveva spinti a ritroso nell'antro,

Caco, timore e infamia dalla selva aventina,

non lieve danno e minaccia a ospiti e vicini.

D'orribile aspetto, forze adeguate alle membra, corpo

Immane, simile mostro era figlio di Vulcano;

aveva per dimora una spelonca immensa di lunghi recessi,

dal celato imbocco a stento reperibile dalle belve stesse;

pendono sulle porte teschi e braccia inchiodate,

il suolo squallido biancheggia di ossa umane.

Il figlio di Giove si allontanava privo di una parte di buoi

malcustoditi. Ma quelli, i rubati, muggirono con un rauco suono.

‹‹Accolgo il richiamo››, disse, e seguendo il muggito,

attraverso la selva raggiunge vendicatore l'antro scellerato.

Caco aveva sbarrato l'ingresso con un'enorme scheggia di monte:

a stento dieci coppie di buoi avrebbero smosso quell'ostacolo.

Ercole lo sforza con le spalle – che avevano sostenuto

Persino il cielo -, e l'urto rovescia quell'enorme peso.

Come questo crollò, il fragore atterrì l'etere stesso

E la terra percorsa s'avvallò sotto il peso di quella mole.

Caco muove per primo allo scontro venendo alle mani,

e feroce intraprende la zuffa con tronchi d'albero e macigni.

Ma poiché nulla ottiene in tal modo, lui meno forte,

ricorre all'arte paterna e dalla bocca ruggente emette fiamme,

e ogni volta che le sprigiona le crederesti eruttate da Tifeo,

e che una rapida folgore sia scagliata dalla fucina etnea.

L'Alcide lo assale, e la nodosa clava, sollevata,

tre e quattro volte s'abbatte sulla faccia del mostro che incalza.

Quello cade e vomita sangue misto a fumo

e morendo percuote la terra con il vasto petto.

Il vincitore immola a te, o Giove, un toro di quelli

che gli erano stati rubati, e invita Evandro e i contadini.

A sé costruisce un'ara, che è detta Massima,

qui dove parte dell'Urbe prese nome dal bue.

Né tace la madre di Evandro che è vicino il tempo

In cui la terra avrà goduto abbastanza del suo Ercole.

 

 

Citazione tratta da “Teogonia” di Esiodo – vv. 943/944

Alcmena generò Eracle forte

Unita in amore a Zeus adunatore di nubi.

 

 

Citazione tratta da “Lo scudo di Eracle”, vv. 1/56 e “Catalogo delle donne”, libro IV di Esiodo

… O ancora quale, abbandonate le case e la terra del padre,

giunse a Tebe, seguendo Anfitrione bellicoso,

Alcmena, figlia di Elettrione adunatore di genti.

Ella vinceva la stirpe di donne delicate,

in bellezza e statura; e nessuna le era pari in ingegno

fra le fanciulle nate da unioni d'amore mortali.

Dal suo capo e dagli occhi scuri spirava

Un incanto quale Afrodite ricca d'oro.

Ed ella venerò in tal misura il suo sposo,

come mai altra fra le donne delicate.

Eppure egli uccise il padre valoroso, vincendolo con la forza,

adirato a causa dei buoi; e lasciata la terra del padre,

andò supplice a Tebe, presso i Cadmei portatori di scudi.

E lì prendeva dimora, insieme alla sposa diletta,

eppure lontano da lei, senza amore struggente; a lui non era

permesso di salire al talamo dell'Elettrionide belle caviglie,

prima di aver vendicato la strage dei coraggiosi fratelli

della sua sposa, di aver incendiato col fuoco che divora

i villaggi dei Tafi, uomini eroi, e dei Teleboi.

Così infatti aveva promesso e gli dèi gli erano testimoni;

e ne temeva la collera e si affrettava quanto poteva

a compiere la grande impresa che Zeus gli aveva ordinato.

Con lui i Beoti sferza cavalli, amanti della battaglia

e dell'urlo di guerra, che respirano in alto sopra gli scudi,

e i Locri che lottano corpo a corpo, e i Focesi valorosi,

andavano; li comandava il prode figlio di Alceo,

fiero del suo popolo. Ma il padre degli uomini e degli dèi

aveva nell'animo un altro disegno: come generare un baluardo

contro il male, per gli dèi e per gli uomini che mangiano pane.

Balzò giù dall'Olimpo, fabbricando un inganno nell'animo,

preso da ardente desiderio per la donna bella cintura,

di notte; subito giunse al Tifaonio; e di lì in seguito

toccò la punta più alta del Ficio, Zeus saggio.

E lì sedendo meditava nell'animo imprese straordinarie:

in quella notte infatti si unì nel letto d'amore

con l'Elettrionide belle caviglie e appagò il suo desiderio;

e in quella notte, Anfitrione adunatore di genti, eroe luminoso,

compiuta la grande impresa, se ne tornò alla casa,

né si avviò a trovare i suoi servi e i pastori nei campi

prima di salire al talamo della sua sposa;

un desiderio così grande prese il cuore di quel pastore di genti.

E come quando un uomo gioisce per la scampata sciagura,

o di un morbo cattivo o di dure catene,

così Anfitrione, compiuta l'impresa difficile,

felice e bramoso si avviava alla casa.

Tutta la notte giacque accanto alla sposa diletta,

godendo dei doni di Afrodite ricca d'oro.

Ella, piegata al desiderio del dio e dell'uomo, di tutti il più grande,

generò a Tebe sette porte due figli gemelli,

nell'animo del tutto dissimili, eppure fratelli;

l'uno inferiore, l'altro eroe, di gran lunga migliore,

terribile e forte, Eracle potente:

questo lei ebbe, soggiogata dal figlio di Crono nuvola nera,

quello, Ificle, unendosi ad Anfitrione guerriero,

diversa progenie: l'uno in amore con un uomo mortale,

l'altro per unione con Zeus, figlio di Crono, signore di tutti gli dèi.

 

 

Citazione tratta da “Teogonia” di Esiodo – vv. 950/955

Ebe, il figlio possente di Alcmena dalle belle caviglie,

Eracle vigoroso, compiute le dolorose fatiche,

lei che era figlia di Zeus grande e di Era dagli aurei calzari,

la fece sua casta sposa nell'Olimpo nevoso,

beato, che, la grande impresa compiuta, fra gli immortali

ha dimora, privo di pene e ognor giovane, sempre.

 

 

Citazione tratta da Trachinie “Il lamento di Eracle” di Sofocle – vv. 1046/1111, trad. G. Paduano

Eracle . Molte aspre fatiche, dure anche solo a parlarne hanno sofferto le mie mani, le mie spalle; ma nessuna di quelle che mi ha imposto la sposa di Zeus, né l'odioso Euristeo, vale l'inganno della figlia di Eneo, la rete tessuta dalle Erinni, che mi distrugge. Appiccicata ai fianchi, rode le intime carni e di dietro mi succhia i polmoni; già ha bevuto il mio sangue fresco, e il mio corpo è devastato, preso in questa catena innominabile. Non la lancia in battaglia, non l'esercito dei figli della terra, non la violenza dei mostri, non la Grecia , non la terra dei barbari, né altra mai che ho corso per purificarla per purificarla mi ha fatto questo. Una donna, una femmina, che non ha natura virile, sola, senza spada mi ha ucciso. Figlio, sii mio figlio vero, non preferirmi il nome – e non altro – di tua madre. Portala qui con le tue mani, e mettila nelle mie mani, che io sappia chiaro se il tuo dolore è più per la pena del mio corpo, o per la vista della sua giusta punizione. Figlio mio, coraggio. Abbi pietà di me che faccio pietà a tanta gente, ridotto a piangere e a gemere come una fanciulla. Nessuno per il passato può dire di avermelo visto fare; ho seguito la strada delle mie pene senza un gemito; e ora mi ritrovo nello stato infelice di una femmina. Vieni qui, più vicino a tuo padre; guarda quali sono i mali che soffro: te li mostrerò senza veli. Guardate tutti questo corpo infelice, disgraziato, miserevole. Ahimè! Ecco di nuovo m'infiamma lo spasimo, mi trafigge i fianchi, la malattia che mi divora non mi lascia respiro. O signore Ade, accoglimi; folgore di Zeus, colpiscimi. Vibra e scaglia su di me, padre, il dardo rovente. Di nuovo rifiorisce, mi divora, mi assalta. Mie mani, e petto, e spalle, e braccia, foste pur voi a piegare con la vostra forza il leone di Nemea, minaccia dei pastori, belva inaccostabile; e l'idra di Lerna, e la doppia natura dei centauri, uomini e cavalli, feroci, senza legge, strapotenti; e il mostro di Erimanto, e il cane a tre teste di Ade, invincibile figlio della spaventosa Echidna, e il drago custode delle mele d'oro, ai confini del mondo. E altre mille prove ho gustato; nessuno ha avuto vittoria contro il mio braccio. Ora, spezzato e distrutto, sono preda di una cieca sciagura; io, figlio di una madre mobilissima, io celebrato figlio di Zeus, il signore del cielo. Ma sappiate una cosa: anche se sono ridotto a nulla, e non posso più neppure muovermi, anche così punirò la donna che ha fatto questo. mi basta che si avvicini, e mostrerò a tutto il mondo che in vita e in morte ho punito i malvagi.

 

 

Citazione tratta da “I Fenomeni ed i Pronostici” di Arato – vv. 95/106

Sempre lì si rivolge una figura

che somiglia ad un uomo tormentato.

Non c'è chi sappia dire chiaramente

di che si tratti, né qual patimento

gli sia imposto, però così lo chiamano:

l'Inginocchiato 159. In ginocchio, spossato,

assomiglia davvero a un genuflesso.

Da ambo le spalle gli si levan alte

le mani: una da un lato e una dall'altro

si tendon, misurando in tutto un'orgia.

E in mezzo al capo del sinouso Drago

tiene la punta del suo piede destro.

 

 

Citazione tratta da “Amphitruo” di Plauto – Atto V, GIOVE

Sta' tranquillo, Anfitrione, sono qui per aiutare te e i tuoi. Non c'è ragione d'aver paura. Non chiamare maghi e indovini. Ti spiegherò io quel che è successo e quel che succederà e lo farò molto meglio di loro, perché sono Giove. Per prima cosa sappi che ho approfittato di Alcmena e l'ho ingravidata di tuo figlio; tu a tua volta l'hai fatto prima di partire per la guerra e i due bambini sono venuti alla luce insieme. Grazie alle gesta di uno di loro, quello che è stato concepito dal mio seme, avrai gloria immortale. Tu ritorna in armonia con Alcmena, come prima; non ha fatto nulla che meriti il tuo biasimo; ha agito soggiogata dalla mia forza. Io torno in cielo.

 

 

Citazione tratta da “Agamennone” di Seneca – vv. 822/858

Il fulminante leone nemeo, compresso nella tua stretta, provò la tua forza, e la cerva Parraside anche; provò la tua forza il devastatore dei campi d'Arcadia; e urlò l'orrido toro che aveva abbandonato i campi di Creta. Vinse il fecondo drago [l'Idra] e impedì che le sue teste rinascessero ad ogni colpo mortale; deridendo, schiacciò con un colpo di clava il triplice mostruoso corpo dei fratelli gemelli nati con un unico busto e ne condusse il bestiame dalle terre d'occidente a quelle d'oriente, privato dal triforme Gerione. Portò via i cavalli di Tracia, che un crudele padrone non faceva pascolare sull'erba del fiume Stramonio né sulle rive dell'Ebro: nelle sue stalle tremende offriva loro in pasto il sangue degli ospiti: quello del suo padrone fu l'ultimo sangue che tinse le loro fauci feroci. La bellicosa Ippolita vide rapirsi di mezzo il petto la fascia; lo Stuolo Stinfalio percosso dalle sue frecce precipitò dall'alto cielo; e l'albero che produceva pomi d'oro, non assuefatto alla raccolta, tremò di terrore sotto la sua mano e si risollevò poi nell'aria più leggero per il ramo asportato. Il triviale custode che non conosce riposo ne udì il rumore al crepitare delle foglie laminate, solo quando Alcide, carico del biondo metallo, lasciava tutto vuoto il giardino. Il cane degli inferi, tratto all'aria aperta, si tacque sotto la triplice catena, e non latrò più con nessuna delle sue tre gole, impaurito dal colore della luce a lui ignota.

 

 

Citazione tratta da “Biblioteca” di Apollodoro – II, 4, 10

Prima che Anfitrione rientrasse in Tebe, Zeus arrivò, di notte, e fece in modo che quella notte durasse per tre;poi assunse le sembianze di Anfitrione, si sdraiò nel letto con Alcmena, e le raccontò delle sue vittorie nella guerra contro i Teleboi. Quando poi Anfitrione arrivò e vide che la sposa non festeggiava il suo ritorno, gliene chiese il motivo: e Alcmena rispose che aveva già festeggiato il suo ritorno la sera prima, dormendo insieme a lui. Allora Anfitrione andò dall'indovino Tiresia, e questi gli rivelò che Zeus stesso si era unito a sua moglie. Alcmena partorì due bambini, da Zeus Eracle, maggiore di una notte, e da Anfitrione Ificle. Quando il bambino aveva otto mesi, Era inviò alla sua culla due serpenti spaventosi, perché voleva farlo morire. Alcmena gridò, chiamò Anfitrione in soccorso, ma Eracle si era già alzato, aveva già ucciso i serpenti, strangolati, uno per mano. Ferecide sostiene invece che Anfitrione, per sapere quale dei due bambini fosse figlio suo gettò dei serpenti nel letto: Ificle scappò, Eracle invece li affrontò – e Anfitrione capì che suo figlio era Ificle.

 

 

Citazione tratta da “Miti” di Igino - 29

Nel tempo in cui Anfitrione era lontano a espugnare Ecalia, Alcmena ammise Giove nel proprio talamo, credendo che fosse il suo sposo. Quando il dio fu nel talamo e le riferì le sue imprese a Ecalia, ella si persuase che era proprio il suo sposo e giacque con lui. E il dio provò tanto piacere nel giacere con lei che passò lì un giorno intero e raddoppiò la durata della notte, al punto che Alcmena si meravigliò che la notte fosse così lunga. Quando poi fu riferita la notizia che suo marito ritornava vincitore, non la prese in considerazione poiché credeva di averlo già incontrato. Quando Anfitrione entrò nella reggia e la vide indifferente se ne meravigliò e le chiese come mai non era corsa a riceverlo. Alcmena gli rispose: «Ma tu sei arrivato già ieri, hai dormito con me e mi hai raccontato le tue imprese ad Ecalia!». Ella poi gli diede le prove di quello che era accaduto, Anfitrione capì che al posto suo si era presentata qualche divinità e da quel giorno si astenne dal dormire con Alcmena. Ed essa in seguito al connubio con Giove partorì Ercole.

 

 

Citazione tratta da “Miti” di Igino - 30

Quando Ercole era neonato strozzò a mani nude due serpenti inviati da Giunone, e per questo fu detto il primogenito. Uccise poi il leone nemeo, la belva invulnerabile che la Luna aveva allevato in un antro a due uscite; da allora usò la sua pelle come veste. Presso la fonte di Lerna uccise l'Idra di Lerna, figlia di Tifone, che aveva nove teste: questo mostro aveva un veleno così potente da uccidere gli uomini solo con il suo alito; se qualcuno le passava accanto mentre era addormentata, essa alitava sulle sue orme e quell'uomo moriva tra tormenti ancora più atroci. Ma Ercole la uccise seguendo i consigli di Minerva, la sventrò e intinse le frecce nel suo fiele: così, da quel momento, chiunque veniva ferito dalle sue frecce non sfuggiva alla morte; alla fine anch'egli perì dello stesso veleno in Frigia. Uccise il cinghiale dell'Erimanto. Condusse vivo al cospetto di Euristeo un cervo selvaggio che viveva in Arcadia e aveva corna d'oro. Uccise a colpi di freccia gli uccelli Stinfalidi che scagliavano le loro penne come proiettili. In un solo giorno ripulì dal fimo le stalle del re Augia, con l'aiuto determinante di Giove; egli deviò il corso di un fiume e lavò via tutto il letame. Condusse vivo da Creta a Micene il toro con il quale si era congiunta Pasifae. Insieme allo scudiero Abdero uccise in Tracia il re Diomede e i suoi quattro cavalli, che si nutrivano di carne umana: i nomi dei cavalli erano Podargo, Lampone, Xanto e Dino. Rubò la cintura all'amazzone Ippolita, figlia di Marte e della regina Otrera, che regnava sulle Amazzoni; in quell'occasione donò a Teseo Antiope sua prigioniera. Con un solo colpo uccise Gerione, figlio di Crisaore, che aveva tre corpi. Uccise presso il monte Atlante un gigantesco serpente, figlio di Tifone, che custodiva le mele d'oro delle Esperidi e portò al re Euristeo quelle mele. Trasse dall'Ade il cane Cerbero, figlio di Tifone, e lo condusse al cospetto del re.

 

 

Citazione tratta da “ La Divina Commedia ” di Dante Alighieri – Inferno, XXV, vv. 25/33

Lo mio maestro disse: « Questi è Caco,

che, sotto 'l sasso di monte Aventino,

di sangue fece spesse volte laco.

Non va co' suoi fratei per un cammino

per lo furto che frodolente fece

del grande armento ch'elli ebbe a vicino;

onde cessar le sue opere biece

sotto la mazza d'Ercule, che forse

gliene diè cento, e non sentì le diece » .

 

 

Citazione tratta da “ La Divina Commedia ” di Dante Alighieri – Inferno, XXVI, vv. 106/111

Io e ' compagni eravam vecchi e tardi

quando venimmo a quella foce stretta

dov'Ercule segnò li suoi riguardi,

acciò che l'uom più oltre non si metta:

da la man destra mi lasciai Sibilia,

da l'altra già m'avea lasciata Setta.

 

 

Citazione tratta da “Canzoni eroiche” di G. Chiabrera – I, XV vv. 1/20

Era tolto di fasce Ercole e pena

che pargoletto ignudo

entro il paterno scudo

il riponea la genitrice Alcmena:

e nella culla dura

traea la notte oscura.

Quand'ecco serpi a funestargli il seno

isidïose e rie:

cura mortal non spie

se pur sorgesse il gemino veneno:

chè ben si crede allora

ch'alto valor s'onora.

Or non sì tosto i mostri ebbe davante,

che colla man di latte

erto su un piè combatte,

già fatto atleta, il celebrato infante,

stretto per strani modi

entro i viperei nodi.

Alfin le belve sibillanti e crude

disanimate stende.

 

 

Note

159 Ercole

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