Introduzione
Felix qui putuit rerum cognoscere causas
Atque metus omnis et inexorabile fatum
Subiecit pedibus strepitumque Acherontis avari...
Georgiche
Queste note sono scritte per il lettore-spettatore al quale piaccia orientarsi con il Sole, la Luna e le stelle; e, allo stesso tempo, vorrebbero essere un veicolo per iniettare la passione, dirò così, della teoria del cielo, nel senso originario del termine, ovvero della contemplazione della volta celeste - archetipo della conoscenza intesa come azione che ordina arbitrariamente il mondo dando “i nomi alle cose”, del riconoscimento degli oggetti astrali attribuendo loro una forma, tramite la posizione relativa ed il colore.
Si tratta della capacità immaginale che vive latente in noi come una qualità antropologica; e qualche volta, si mette in moto spontaneamente, per così dire, quando attribuiamo una forma alle nuvole o ai crinali di lontane montagne o anche alle macchie di colore di un quadro di Klee. Noi apprendiamo assegnando delle forme alle cose ed i nomi, quelli veri, sono le parole che evocano queste forme.
Si badi che l'immagine non è il concetto. La conoscenza articolata nei concetti ha un andamento paranoico: mentre astrae, universalizza e definisce, allo stesso tempo smembra, riduce ed impoverisce la varietà eterogenea delle cose; essa mira all'uno, all'identico, alla totalità, al metodo; e spinge verso il lontano e l'ignoto a scapito del prossimo e del concreto,avvertiti come trappole d'incoerenza ed incompletezza. Laddove la facoltà immaginale ha a cuore il molteplice, il contingente, il dettaglio e sopratutto il mutamento di forma, quella metamorfosi che il concetto tende a negare; e, dove non può, ad occultare ed ignorare.
Certo se contrapponessimo la capacità immaginale a quella concettuale non avremmo fatto grandi passi in avanti. Infatti, l'immagine non è una sorta di descrizione immediata del reale, non ha niente a che spartire con l'immedesimazione e l'empatia; ma possiede, piuttosto, una natura rigorosamente intermedia, mediale quindi. È così che essa disarticola la rigida concatenazione dei concetti; e fa questo senza precipitare in una dispersione informe.
Quando ci sentiamo sopraffatti dall'esperienza ci rivolgiamo ad una immagine, e ci teniamo stretti a ciò che non muta e così riusciamo a fare affiorare ciò che muta senza sosta. Per questo le immagini devono essere molte ma non troppe, perchè esse devono trattenere il mondo e non dissolverlo in innumerevoli rivoli; per questo che non v'è una immagine unica: in effetti, se ve ne fosse una, sola e veritiera, essa schiaccerebbe chiunque nell'orrore e lo soffocherebbe per sempre. Ed ancora per questo che le immagini non possono essere escrescenze oggettive né invenzioni individuali; ma sono creazioni arbitrarie intersoggettive che esistono nelle lingua, al di fuori, dirò così, del singolo locutore, ma pronte a ridestarsi per noi, grazie a noi nel momento del desiderio o del pericolo. Sono dunque molte le immagini di cui abbiamo bisogno, se vogliamo una vita nostra, se accettiamo la singolarità nella quale il destino ci ha gettati; e se le troviamo presto, non troppo di noi andrà perduto.
L'ordine introdotto nel cielo, attraverso l'arbitrio intersoggettivo di raggruppare le stelle in costellazioni, costituisce un paradigma o meglio un invariante antropologico della potenza cognitiva. Usiamo la similitudine per dare un nome a gruppi di stelle; e così dal caos indistinto emergono le costellazioni; ma la similitudine ha un esito che non è una descrizione fedele dell'oggetto ma solo una sua rappresentazione verosimile - per costruire la quale l'arbitrio e la convenzione intersoggettiva sono dei residui irriducibili.
A ben vedere, questo non accade solo nella osservazione e nello studio del cielo; in molti ambiti conoscitivi noi pensiamo per similitudini - tra queste e gli oggetti o i processi che esse nominano v'è, come scrive Spinoza, lo stesso rapporto che tra il Cane, costellazione celeste ed il cane, animale latrante - non aliter scilicet quam inter se conveniunt canis, signum celeste, et canis, animal latrans. (Etica, Parte I, prop. XVII, scolio).
Siamo qui al cospetto della concezione classica della “verità”, le cui origini rimontano alla identificazione parmenidea tra la “verità” e “l'essere” mentre la teorizzazione sistematica appare per la prima volta in Aristotele; malgrado che lo Stagirita non l'abbia mai professata con la rigidità e l'esclusività che essa ha ricevuto più tardi, in epoca medievale. Secondo questa concezione il “luogo” della verità si trova nell'atto del giudicare, ovvero nell'asserire o nell'enunciare - in altri termini, la verità di un enunciato consiste nella ”similitudine” (omoiosis) o, come userà dire nel Medio Evo, una “adaequatio intellectus ad rem ”.
Deve essere chiaro, tuttavia che questa adaequatio o convenientia d'entità così diverse come l'intellectus e la res, cioè il giudizio ed il suo oggetto, non può risolversi in una identità ma solo in una similitudine (immagine ed originale) tra il “contenuto psichico” o immanente al soggetto che conosce e l'oggetto “reale” conosciuto o trascendente il soggetto stesso.
Molte sono le parole che nominano oggetti o processi celesti che vengono impiegate, per via di similitudine, a designare, sulla Terra, oggetti, condotte o aspettative umane.
A mo' d'esempio, consideriamo il termine “rivoluzione”: in origine indica il moto circolare degli astri attorno alla Terra, moto concepito come regolare ed irresistibile, e perciò stesso sottratto ad ogni influenza umana. La parola “rivoluzione” all'inizio è priva di ogni connotato di violenza e novità. Quando è usata, come in Polibio, nel campo della vita sociale sta a significare che le diverse forme di governo - monarchia, oligarchia, democrazia, tirannide, etc. - si alternano secondo corsi e ricorsi che hanno la stessa fatalità che le orbite seguite dagli astri nel Cielo. Nulla, come osserva acutamente Hannah Arendt, è più lontano dal significato originario del termine che la nascita di un mondo nuovo.
Nell'epoca moderna il nome consegue una diffusione straordinaria grazie al libro di Copernico “De Revolutionibus Orbium Caelestum”, pubblicato nel 1543. In questo testo la “rivoluzione” designa un movimento ricorrente e ciclico dei pianeti attorno al Sole, movimento che implica il periodico ritorno su ogni punto dell'orbita. Qui l'astronomo polacco presenta un sistema del mondo, quello eliocentrico, che, per sua stessa ammissione, è una restaurazione del modello cosmologico della scuola pitagorica, in particolare dell'ipotesi di Filolao.
Sarà Galileo, quasi un secolo più tardi, a rimarcare non già il carattere restaurativo ma piuttosto la qualità innovativa dell'astronomia copernicana, che non a caso viene denominata come una nuova scienza. Poi, nel settecento, si comincerà a parlare di rivoluzione scientifica per sottolineare i connotati, inediti ed antiautoritari, iniettati dal libro di Copernico non solo nell'ambito della disciplina astronomica ma nella più larga comunità delle persone colte. La rivoluzione copernicana diventa una metafora per indicare il rovesciamento del punto di vista tradizionale e l'emergere della libertà del pensiero scientifico ed il suo sottrarsi all'autorità costituita, prima di tutto alla dottrina della Chiesa. Quando si verificheranno, sul finire del secolo, i sommovimenti politico-sociali in Francia verrà usato, per denotarli, il nome “rivoluzione” proprio perchè essi saranno interpretati come l'epilogo estremo del processo innescato dal libro di Copernico e dall'opera dei suoi seguaci.
Un altro esempio, ancora più rilevante, di come i nomi celesti abbiano penetrato i criteri di giudizio che adoperiamo nella vita quotidiana è tratto dalle superstizioni che hanno fatto nido nella lingua fino a diventare talmente familiari da nascondere la loro origine, dirò così, celeste.
È il caso del significato malaugurante che assumono, a seconda delle lingue o meglio dei sistemi d'orientamento incorporati nelle lingue, le parole “destra” e “sinistra”. E' storicamente provato, oltre ad essere perfino ovvio, che, in generale, le civiltà localizzate nell'emisfero settentrionale si orientano guardando al Nord celeste mentre quelle meridionali fanno riferimento al Sud. Per le prime quindi il Sole sorge a destra e tramonta a sinistra mentre per le seconde accadrà viceversa.
I Greci, già nel periodo arcaico, per orientarsi si rivolgono verso il Nord, avendo così a destra l'Oriente. (Omero, Iliade, XII, 239; Aristotele, De Coelo, II, 2)
Così la mano destra è considerata apportatrice di fortuna mentre quella sinistra è sinonimo di disgrazia per i popoli che si orientano a Nord; laddove il giudizio è rovesciato per coloro che si riferiscono al Sud. Abbiamo quindi che per gli indo-europei la destra porta bene e la sinistra male; per i Fenici, gli Egizi, gli Ebrei le cose sono ribaltate.
Il caso dei Latini, indo-europei d'origine, è di notevole interesse perchè riflette le vicissitudini di quel popolo nei suoi rapporti con le altre civiltà del Mediterraneo. All'epoca della monarchia e nei due primi secoli della repubblica, i Romani subiscono la forte influenza culturale degli Etruschi e ne assimilano le concezioni astronomiche. A loro volta, l'astronomia degli Etruschi è di derivazione fenicia; sicché a Roma, almeno fino alla guerra annibalica, la mano sinistra, denotata dal termine “laevus” o “scaevus”, indica la direzione dalla quale spira la fortuna. (Varrone, La lingua Latina, VII,7-8; Cicerone, De Divinatione, II, 18, 43)
Qualche secolo più tardi, quando ormai la cultura greca è divenuta egemone a Roma e con essa l'orientamento a settentrione, le antiche parole laevus e scaevus cadranno in disuso per far posto a “sinister” che originariamente significa “anormale” e, designando la direzione di Ponente, acquisterà quel significato sinistro che tuttora possiede nelle lingue neo-latine. (Tito Livio, Storie, I, 18; Vitruvio, De Architectura, IV, 5, 1)
Molte altre sono le parole astronomiche che, per similitudine o analogia, hanno finito con l'assumere un significato talmente lontano dall'origine filologica che quest'ultima risulta del tutto occultata. Si pensi ai verbi “considerare” o “desiderare” : il primo indica lo stare insieme con le stelle ( cum-sidera) mentre il secondo denota un allontanamento da esse ( de-sidera).
Come altro esempio, esaminiamo la parola italiana, per la verità d'uso letterario, “canicola”; il significato originario indica il periodo dell'anno caratterizzato dal sorgere eliacale, cioè all'alba, della costellazione del Cane Celeste: anticamente,fino alla epoca della costruzione della piramide di Cheope, questo fenomeno si verificava attorno all'inizio di giugno, quando il Nilo straripava in conseguenza allo sciogliersi dei ghiacci sull'altipiano etiopico- sicché gli egizi stabilirono una relazione causale tra le inondazioni del grande fiume e l'apparire nel cielo aurorale della costellazione del Cane e denominarono “canicola” questo periodo di calura estiva.