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Da Eudosso di Cnido a Giovan Battista D’Amico da Cosenza

Franco Piperno

“Noi spesso chiediamo alle stelle il perché della vita e della morte; ma esse, col loro incessante tremulo palpitio par che invece lo chiedano a noi, a noi povere minuscole creature della Terra.”
Luigi Pirandello

Era l’agosto del 1536, quando viene pubblicato a Venezia, dal tipografo Agostino Bidoni, un opuscolo sul sistema astronomico, quello detto omocentrico o eudossiano. Il titolo latino suona, in traduzione, più o meno così: “Attorno ai moti dei corpi celesti secondo la filosofia aristotelica e senza l’uso di eccentrici ed epicicli”. Alla fine del libretto, l’autore, Gian Battista d’Amico, si presenta, al lettore, come ventiquattrenne, nativo di Cosenza, figlio postumo di un padre con gli stessi nomi. Il giovane astronomo verrà, da lì a poco, “ammazzato nel miglior corso della sua età per invidia” da un sicario rimasto sconosciuto, come può leggersi nell’epitaffio che si trova tra le iscrizioni della città di Padova (1); sicché quell’opuscolo, per così dire precoce, sarà, ad un tempo, il primo e l’ultimo suo contributo al dibattito sui “massimi sistemi del mondo”.
Questa discussione era stata innescata almeno quattro secoli prima: la “reparatio kalendarii” ovvero la consapevolezza, diffusa tra le gerarchie ecclesiastiche, che il calendario giuliano attribuisse all’anno solare una durata troppo lunga rispetto a quella reale; sicché le celebrazioni  religiose, in particolare la Pasqua che ordina le feste mobili, finivano con l’aver luogo con ritardo crescente, di anno in anno, sui fenomeni astrali ai quali pure si riferivano . Il dibattito era poi propriamente esploso quando, all’epoca dei grandi viaggi, sul morire del quattrocento, al problema del riforma del calendario se ne era aggiunto un altro più urgente: la navigazione al di fuori del Mediterraneo, quella oceanica, aveva mostrato l’inaffidabilità delle tavole astronomiche tolemaiche proprio quando c’era più bisogno di disporre di informazioni precise sulle posizioni dei corpi celesti nel cielo notturno  per orientarsi, o meglio, tracciare la rotta in mare aperto.
Il libretto di Amico, dopo un effimero successo iniziale, sarà ignorato dagli storici dell’astronomia, tanto italiani che stranieri; probabilmente perché il cosentino, a differenza del veronese Girolamo Fracastoro a lui contemporaneo e come lui peripatetico, non aveva avuto l’occasione di acquisire notorietà attraverso altre opere. E tuttavia, l’opuscolo avrebbe meritato un altro destino dal momento che – oltre ad impiegare magistralmente nella scrittura la chiarezza logica del latino scolastico – contiene una significativa innovazione nel rifacimento del sistema eudossiano: le sfere omocentriche non devono più avere gli assi di rotazione a perpendicolo l’uno con l’altro ma possono assumere, più in generale, qualsiasi inclinazione reciproca.
Questa innovazione diciamo così tecnica, riporta a nuova vita, conferendogli potenza previsionale, il sistema eudossiano, ideato appunto da Eudosso, arricchito da Callipo e infine perfezionato dallo stesso Aristotele, il tutto quasi due millenni prima. La teoria omocentrica, rivisitata dall’opuscolo del cosentino, è in grado di competere con la teoria degli epicicli, detta tolemaica, proprio sul terreno che aveva assicurata l’egemonia di quest’ultima nella comunità scientifica medievale, il terreno degli “astrologi” o ”astronomi mathematici”, quelli dediti alla formulazione delle “Tabulae” per i naviganti nonché alla redazione degli oroscopi per i potenti.
Ma in più, rispetto al sistema tolemaico, quello eudossiano-amiciano presenta il vantaggio di avere un fondamento nel mondo reale, di possedere uno spessore propriamente ontologico, in ottimo accordo con la “Fisica” di Aristotele; insomma, una descrizione fedele,anche se approssimativa, dei movimenti dei corpi quali si svolgono realmente sulla volta celeste. Infatti, come è noto, Tolomeo ed i suoi seguaci non pretendono che davvero i pianeti ubbidiscano ai loro eccentrici e epicicli ma più modestamente ritengono di riuscire “a salvare i fenomeni”, ovvero di possedere un modello matematico dei cieli che permetta loro di calcolare risultati numerici in buon accordo con l’esperienza osservativa; essi sono ben consapevoli che la loro teoria è incompatibile con la tradizione aristotelica, alla quale per altro si sentono di appartenere fino in fondo, ma non si pongono il compito di sciogliere la contraddizione perché per loro non esiste: nello sciorinare i loro conti non si occupano di cosmologia non si sentono “astronomi philosophi” ma solamente, appunto dei “mathematici”.
In questa luce, il libretto del d’Amico, scritto in quel tornante di tempo breve ma intenso che segue la messa in crisi del sistema tolemaico e precede l’avvento del sistema eliocentrico , non contiene solo una interessante innovazione astronomico-matematica, ma introduce un metodo che da lì a poco si rivelerà dirimente: l’unificazione delle due astronomie prima separate, la philosophica e la mathematica. E questa unificazione verrà proposta come criterio di verità; nel senso che la teoria è vera  se, da una parte, descrive come stanno realmente le cose del mondo, ma, d’altro canto, è in grado di formulare previsioni verificabili; e questo non in base a trucchi matematici ma perché possiede la fisica ovvero la strada che porta alla realtà. Da questo punto di vista, il merito maggiore del giovane cosentino è di avere anticipato, di oltre mezzo secolo e sia pure in lingua aristotelica, il realismo,  fisico-matematico ma tutt’altro che peripatetico, del Galilei.

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