Da Eudosso di Cnido a Giovan Battista D’Amico da Cosenza

Franco Piperno

“Noi spesso chiediamo alle stelle il perché della vita e della morte; ma esse, col loro incessante tremulo palpitio par che invece lo chiedano a noi, a noi povere minuscole creature della Terra.”
Luigi Pirandello

Era l’agosto del 1536, quando viene pubblicato a Venezia, dal tipografo Agostino Bidoni, un opuscolo sul sistema astronomico, quello detto omocentrico o eudossiano. Il titolo latino suona, in traduzione, più o meno così: “Attorno ai moti dei corpi celesti secondo la filosofia aristotelica e senza l’uso di eccentrici ed epicicli”. Alla fine del libretto, l’autore, Gian Battista d’Amico, si presenta, al lettore, come ventiquattrenne, nativo di Cosenza, figlio postumo di un padre con gli stessi nomi. Il giovane astronomo verrà, da lì a poco, “ammazzato nel miglior corso della sua età per invidia” da un sicario rimasto sconosciuto, come può leggersi nell’epitaffio che si trova tra le iscrizioni della città di Padova (1); sicché quell’opuscolo, per così dire precoce, sarà, ad un tempo, il primo e l’ultimo suo contributo al dibattito sui “massimi sistemi del mondo”.
Questa discussione era stata innescata almeno quattro secoli prima: la “reparatio kalendarii” ovvero la consapevolezza, diffusa tra le gerarchie ecclesiastiche, che il calendario giuliano attribuisse all’anno solare una durata troppo lunga rispetto a quella reale; sicché le celebrazioni  religiose, in particolare la Pasqua che ordina le feste mobili, finivano con l’aver luogo con ritardo crescente, di anno in anno, sui fenomeni astrali ai quali pure si riferivano . Il dibattito era poi propriamente esploso quando, all’epoca dei grandi viaggi, sul morire del quattrocento, al problema del riforma del calendario se ne era aggiunto un altro più urgente: la navigazione al di fuori del Mediterraneo, quella oceanica, aveva mostrato l’inaffidabilità delle tavole astronomiche tolemaiche proprio quando c’era più bisogno di disporre di informazioni precise sulle posizioni dei corpi celesti nel cielo notturno  per orientarsi, o meglio, tracciare la rotta in mare aperto.
Il libretto di Amico, dopo un effimero successo iniziale, sarà ignorato dagli storici dell’astronomia, tanto italiani che stranieri; probabilmente perché il cosentino, a differenza del veronese Girolamo Fracastoro a lui contemporaneo e come lui peripatetico, non aveva avuto l’occasione di acquisire notorietà attraverso altre opere. E tuttavia, l’opuscolo avrebbe meritato un altro destino dal momento che – oltre ad impiegare magistralmente nella scrittura la chiarezza logica del latino scolastico – contiene una significativa innovazione nel rifacimento del sistema eudossiano: le sfere omocentriche non devono più avere gli assi di rotazione a perpendicolo l’uno con l’altro ma possono assumere, più in generale, qualsiasi inclinazione reciproca.
Eudosso di CnidoQuesta innovazione diciamo così tecnica, riporta a nuova vita, conferendogli potenza previsionale, il sistema eudossiano, ideato appunto da Eudosso, arricchito da Callipo e infine perfezionato dallo stesso Aristotele, il tutto quasi due millenni prima. La teoria omocentrica, rivisitata dall’opuscolo del cosentino, è in grado di competere con la teoria degli epicicli, detta tolemaica, proprio sul terreno che aveva assicurata l’egemonia di quest’ultima nella comunità scientifica medievale, il terreno degli “astrologi” o ”astronomi mathematici”, quelli dediti alla formulazione delle “Tabulae” per i naviganti nonché alla redazione degli oroscopi per i potenti.
Ma in più, rispetto al sistema tolemaico, quello eudossiano-amiciano presenta il vantaggio di avere un fondamento nel mondo reale, di possedere uno spessore propriamente ontologico, in ottimo accordo con la “Fisica” di Aristotele; insomma, una descrizione fedele,anche se approssimativa, dei movimenti dei corpi quali si svolgono realmente sulla volta celeste. Infatti, come è noto, Tolomeo ed i suoi seguaci non pretendono che davvero i pianeti ubbidiscano ai loro eccentrici e epicicli ma più modestamente ritengono di riuscire “a salvare i fenomeni”, ovvero di possedere un modello matematico dei cieli che permetta loro di calcolare risultati numerici in buon accordo con l’esperienza osservativa; essi sono ben consapevoli che la loro teoria è incompatibile con la tradizione aristotelica, alla quale per altro si sentono di appartenere fino in fondo, ma non si pongono il compito di sciogliere la contraddizione perché per loro non esiste: nello sciorinare i loro conti non si occupano di cosmologia non si sentono “astronomi philosophi” ma solamente, appunto dei “mathematici”.
In questa luce, il libretto del d’Amico, scritto in quel tornante di tempo breve ma intenso che segue la messa in crisi del sistema tolemaico e precede l’avvento del sistema eliocentrico , non contiene solo una interessante innovazione astronomico-matematica, ma introduce un metodo che da lì a poco si rivelerà dirimente: l’unificazione delle due astronomie prima separate, la philosophica e la mathematica. E questa unificazione verrà proposta come criterio di verità; nel senso che la teoria è vera  se, da una parte, descrive come stanno realmente le cose del mondo, ma, d’altro canto, è in grado di formulare previsioni verificabili; e questo non in base a trucchi matematici ma perché possiede la fisica ovvero la strada che porta alla realtà. Da questo punto di vista, il merito maggiore del giovane cosentino è di avere anticipato, di oltre mezzo secolo e sia pure in lingua aristotelica, il realismo,  fisico-matematico ma tutt’altro che peripatetico, del Galilei.

1. Rudimenti di astronomia antica: da Eudosso a Tolomeo passando per Aristotele.

Il nostro autore, all’inizio del trattatello, nei primi sei capitoli, rivisita, come d’uso, le teorie astronomiche degli antichi; in particolare di quelli che considera suoi indiretti maestri: Eudosso, Callipo, e, per ultimo ma non ultimo, Aristotele. Noi, per il seguito, eviteremo i dettagli della ricostruzione amiciana e ci limiteremo, piuttosto, ai fini esclusivi dell’intelligenza dell’Opusculum, a delineare i tratti essenziali dell’astronomia antica e medievale, a partire dal sistema del mondo eudossiano — la matrice originaria dalla quale partono poi i successivi tentativi di correzioni, miglioramenti e completamenti.
Apriamo qui, quindi, una lunga, troppo lunga, digressione che il nostro incauto lettore può saltare, senza danno alcuno, per andare direttamente al paragrafo sul sistema del mondo di Amici.
Eudosso di Cnido, da giovane, era stato un allievo della Accademia per divenire  ben presto  il pupillo di Platone. Così, attraverso il maestro, al discepolo preferito era stato possibile entrare in contatto  con la dottrina astronomica pitagorica dove la sfera e la rotazione uniforme, attorno ad un suo asse, costituivano, ad un tempo, lo strumento per spiegare i movimenti dei cieli e la prova della perfezione del Cosmo. Platone stesso aveva affermato , qua e là lungo tutte le sue opere ma in particolare nei dialoghi “Fedro” e “Timeo”, che la sfera era la base ontologica dell’ordine geometrico dell’Universo.
Poi, il giovane, dopo molti mesi e forse ancor di più, aveva rotto il sodalizio virtuoso con il maestro, come conviene che accada ad ogni buon discepolo; l’inquietudine intellettuale lo aveva portato in Egitto, nella misteriosa Menphi, divenendo, per sedici mesi, allievo del Grande Sacerdote Conufis, e appropriandosi così delle antiche e sterminate conoscenze egizie accumulate, attraverso millenni di minuziose osservazioni della volta celeste.
Eudosso, dopo Menphi, viaggia verso il Nord dell’Egitto e si reca a Cizico dove si stabilisce per qualche anno; quindi, ormai sulla soglia della maturità, ritorna ad Atene ed apre una scuola d’astronomia; e forma numerosi allievi che collaboreranno alla messa appunto di un sistema del mondo che risulterà la prima teoria interamente geometrica dei moti celesti. Infine, verso i cinquanta anni, torna a Cnido dove diviene astronomo della Polis; e a questo titolo costruisce un astrario, con la Terra al centro e 20 sfere concentriche a distanza crescente  con velocità angolari diverse per valori e direzioni, in grado di rappresentare, su scala umana e per similitudine, quanto avviene nell’immensità dei cieli. Si racconta che l’astronomo matematico sia morto nell’atto blasfemo di imitare il Demiurgo, imprimere alla sfera più esterna il movimento di ventiquattro ore, destinato a trasmettersi, di prossima in prossima, alle altre diciannove sfere .
Nell’ultimo incontro tra Eudosso e Platone, l’incontro che aveva provocato la rottura, il filosofo, a detta di Simplicio , aveva chiesto al giovane matematico se e come i movimenti erranti dei pianeti potessero essere spiegati componendo opportunamente delle rotazioni uniformi della volta celeste centrata sulla Terra. Per Platone, il problema era “salvare i fenomeni”— i moti apparentemente caotici dei corpi astrali — risalendo alle loro cause, la combinazione di moti rotatori uniformi, gli unici consentiti dalla asserita perfezione dei Cieli. In termini più tecnici, possiamo dire che il problema di Platone era quello di dar conto delle due principali anomalie riscontrate, osservando il cielo notturno, già da Egizi e Babilonesi.
La prima, e più inquietante, era la retrogradazione di cinque tra i sette pianeti, il fatto cioè che essi, di tanto in tanto, per brevi periodi, sembravano arrestare — prima stazione — il loro cammino progressivo da Ovest verso Est, sulla fascia dello Zodiaco; quindi invertire, per qualche tempo, il loro moto andando in regressione da Est ed Ovest, per poi arrestarsi di nuovo — seconda stazione — ed infine riprendere il moto in progressione. Questo andirivieni disordinato mal si conciliava con il movimento uniforme delle stelle fisse, il regolare alternarsi del giorno e della notte; e soprattutto sembrava collidere con il postulato teologico della immutabile perfezione del Cielo, la sua assoluta regolarità.
La seconda anomalia riguardava tutti e sette i pianeti, anche la Luna ed il Sole — secondo la tradizione, erano considerati anch’essi pianeti cioè, come vuole l’etimo, “erranti”. Questa volta l’anomalia consisteva nelle evidenti variazioni di velocità con la quale i pianeti percorrevano la fascia zodiacale, accelerando o decelerando la loro rivoluzione attorno alla Terra.
Le due anomalie, e per la verità anche altre meno facili da evidenziare, erano ben note all’astronomia antica; e per quel che riguarda la seconda, un astronomo ateniese, Metone, di una generazione più anziano di Eudosso, nei suoi studi per la riforma del calendario pritaneo, aveva confermato con la diretta osservazione, non solo i ritardi periodici della Luna ma anche quelli del Sole, come risultava provato dalla diversa durata delle stagioni.
Eudosso, nel lungo soggiorno in Egitto, aveva riflettuto a lungo sulla prima anomalia; ed era arrivato alla conclusione che una sola sfera celeste, alla maniera di Platone, non era sufficiente per spiegare stazioni e retrogradazioni; occorreva introdurne delle altre,anzi molte altre, in numero diverso da pianeta a pianeta, in funzione delle peculiarità del moto. E già quando s’era stabilito a Cizico ed aveva raccolto attorno a sé una prima comunità di studenti, tra i quali primeggerà Callipo; già allora aveva trovato la chiave geometrica per sciogliere il mistero.
Quanto alla seconda anomalia, i ritardi e gli anticipi del moto zodiacale, Eudosso sembra ignorarla malgrado che siamo sicuri dalle fonti che ne fosse compiutamente a conoscenza. In altri termini, Eudosso ritiene, contro l’evidenza osservativa, che la Luna ed Il Sole viaggino lungo lo Zodiaco con moto circolare uniforme. Le ragioni di questa inaspettata omissione non ci sono note; è verosimile che abbia affrontato la questione e ne abbia rimandato la soluzione per non complicare il suo modello oltre ogni decenza. Le sue opere, pur numerose, sono andate interamente perdute, le fonti tacciono e l’interrogazione su questo punto resta senza risposta.
Descriviamo ora a grandi linee, il sistema del mondo eudossiano, il primo, nella civiltà classica, ad avere una natura compiutamente fisico-matematica; questa descrizione si rivelerà utile per comprendere le analogie e le differenze con il sistema del mondo amiciano, il primo, nell’epoca moderna, a proporsi come fusione tra filosofia naturale e geometria solida.
La cosmologia di Eudosso, come quella di Platone, si fonda su due assiomi: la circolarità ed uniformità del movimento dei corpi astrali e il loro svolgersi avendo tutti come centro la Terra— da qui il nome con il quale, secoli dopo, verrà chiamata questa teoria ovvero sistema delle sfere concentriche o sistema omocentrico.


Alla estrema periferia del Cosmo, laddove il mondo finisce o forse comincia, v’è la Sfera che ruota uniforme, il movimento più veloce nel Cosmo, dell’Uno e del Tutto; là sono incastonate, a mo’ di gemme, le stelle fisse; questa sfera, ruotando uniformemente attorno al suo asse, da Est verso Ovest, rende conto del periodico sorgere e tramontare di tutti i corpi celesti. E’ la sfera del Tempo, quello che scorre via veloce, saturnino, cronologico , eterno, sempre uguale a se stesso; esso impregna di sé la trama dell’Universo.
All’interno della sfera, vi sono poi quelle dei luminari erranti o pianeti; ognuno di essi subisce, oltre all’influenza onnipresente del Tempo, quella di altre sfere; la sfera più interna, sul cui equatore giace, annidato, il pianeta, ha il suo asse impiantato sulla sfera precedente, e ruota da Ovest verso Est con una velocità tale da ricostruire il moto zodiacale del corpo celeste — movimento assunto come uniforme, a torto, peraltro, come già notato. Le sfere intermedie, tra quella più interna e quella più esterna, collegate tra di loro dalla regola che pone i poli dell’’asse di ciascuna sulla superficie della precedente, sono in numero variabili a seconda della forma dell’erranza, rendendo, in questo modo, ragione delle peculiarità che differenziano  tra di loro i moti planetari.
Così, per la Luna, basta una sola sfera intermedia a spiegare il movimento in latitudine, movimento che oggi chiamiamo dei “nodi lunari”.
Per gli altri cinque pianeti che presentano il moto retrogrado, le sfere intermedie sono due e ruotano con uguale velocità ma in senso opposto in modo che il pianeta, che si trova sempre sull’equatore della sfera più interna, descriva un andirivieni, una curva ad otto che somiglia assai ad una “ippopeda”, la figura di un esercizio equestre (Fig. 1) in uso nelle città greche dell’epoca classica — noi oggi chiamiamo questa curva “lemniscata”, per via della sua forma a fiocco.
Il pianeta percorrendo l’ippopeda presenta una velocità variabile, che aumenta o diminuisce in funzione diretta della distanza dal nodo centrale,con un moto diretto, da Ovest verso Est, lungo metà della curva e con moto retrogrado per l’altra metà. Inoltre, i valori delle velocità angolari delle due sfere intermedie e di quella interna sono scelti in modo tale che, per colui che osservi dalla Terra, v’è un punto del cielo dove il pianeta sembra fermarsi rispetto alle stelle fisse, per poi riprendere il suo cammino ma retrogradando, da Est verso Ovest; e quindi fermarsi di nuovo e infine ricominciare daccapo il cammino zodiacale o diretto da Ovest verso Est.
Il Cosmo di Eudosso consiste, dunque, di venti sfere distinte: una comune a tutti i corpi astrali — il Tempo del Tutto — due ciascuno per il Sole e la Luna e tre per ognuno degli altri cinque erranti.
Certo, il sistema non è propriamente semplice, come attesta la difficoltà pressoché insormontabile di costruire il corrispondente astrario — un modello meccanico, una macchina che da sola riproduca in piccolo, per similitudine, i grandiosi moti celesti.
Con l’ippopeda Eudosso “salva” abbastanza bene, per la capacità osservativa dell’epoca, i fenomeni delle stazioni e delle retrogradazioni planetarie. Restano inspiegate, come abbiamo già osservato, le anomalie ellittiche, l’anticipo o il ritardo nel moto zodiacale degli erranti; nonché, ed è questo l’aspetto più debole della teoria, la variazione di luminosità, agevolmente osservabile ad occhio nudo, che presenta, ogni singolo pianeta, nel corso della sua rivoluzione attorno alla Terra — il sistema delle sfere omocentriche rende in principio improponibile la spiegazione più naturale, quella che fa dipendere l’intensità luminosa dalla distanza del pianeta dalla Terra, dal momento che, nel modello eudossiano, questa distanza non varia, risultando fissata dal raggio della sfera sulla quale è incastonato l’errante.
Morto Eudosso, la teoria omocentrica sarà ripresa ed arricchita dal discepolo Callipo, incontrato ai tempi del soggiorno a Cizico, di una generazione più giovane. Questi, per spiegare l’anomalia ellittica, introdurrà altre sette sfere, due ciascuno per l luminari maggiori, il Sole e la Luna, e una a testa per Venere, Marte e Mercurio; mentre restano inalterate le sfere che influenzano Saturno e Giove nella errata convinzione, dovuta alla pochezza osservativa, che questi erranti non presentino l’anomalia ellittica. Così, a Callipo, per spiegare l’ordine dell’universo occorrono complessivamente ventisette sfere.
Infine, una generazione dopo Callipo, sarà Aristotele a riprendere il sistema del mondo di Eudosso  e a perfezionarlo, per adeguare meglio i calcoli alle osservazioni più recenti; e a questo fine, ricorrerà ad ulteriori ventidue sfere, portando a quarantanove il numero totale.
Mette conto qui sottolineare, con un’ ulteriore digressione, come il sistema eudossiano, malgrado sia rimasto circondato per secoli dall’irrisione arrogante dei copernicani, risulta, agli occhi smaliziati dello studioso contemporaneo, di notevole raffinatezza matematica e potenza icastica, entrambe portate all’estremo. Vediamo le cose più da vicino. Per via della simmetria sferica vigente nel modello, esso risulta esteticamente appagante (Fig. 2). Dal punto di vista logico-matematico poi, l’idea di Eudosso è geniale ed attuale insieme. Infatti , immaginare e dimostrare che un moto errante, non uniforme, irregolare, nello spazio siderale possa essere ricostruito come una opportuna somma di rotazioni perfettamente periodiche, questo pensiero anticipa di millenni la “analisi di Fourier”, uno strumento matematico fabbricato dai francesi nella seconda metà del XIX secolo, alla base ancor oggi della ricerca fisica la più avanzata .
Per via che le opere sono andate perdute, noi non sappiamo se Eudosso e Callipo ritenessero il sistema omocentrico un mero modello per il calcolo oppure credessero alla realtà cosmologica delle loro sfere.
Quello di cui siamo sicuri, grazie agli scritti conservati, è che Aristotele, per il quale la fisica è l’indagine sull’essere in movimento, ritiene le sfere omocentriche un dato ontologico,un rispecchiamento della realtà nella teoria — al contrario di quel che accade a Platone astronomo, convinto, piuttosto, del contrario, che sia la realtà un rispecchiamento della teoria.
Il sistema omocentrico, avvalorato dall’autorità di Aristotele, dominerà l’astronomia mediterranea per oltre un secolo. Poi la macchinosità del modello, spingerà gli astronomi greci e soprattutto gli alessandrini, a cercare nuove vie, più rapide e semplici per effettuare il calcolo e formulare previsioni sulle posizioni dei corpi celesti. L’innovazione più gravida d’effetti sarà quella proposta dal matematico Apollonio di Perga: abbandonare la geometria solida e tornare a quella piana ovvero sostituire le sfere con i cerchi, la rotazione della sfera con il moto circolare uniforme, per spiegare in maniera più semplice i risultati che Eudosso aveva trovato con il suo complesso meccanismo. Il suggerimento di Apollonio sarà ripreso da Ipparco, osservatore, a Rodi, sul mare greco, del cielo notturno, acuto quanti altri mai nella storia dell’astronomia; e compilatore di un famoso catalogo nel quale vengono registrati indirizzi e luminosità di 888 stelle.
L’astronomo, utilizzando saggiamente i lavori dei suoi predecessori, in primo luogo quelli di Aristarco, elabora ben due sistemi del mondo, tra loro equivalenti ed entrambi più potenti, che le sfere omocentriche, nel salvare i fenomeni celesti, cioè nell’accordo con i dati osservativi — compresi quelli nuovi e assai numerosi effettuati dallo stesso Ipparco. Un sistema si basa sugli eccentrici: la Terra è immobile al centro del Cosmo, ma i sette pianeti ruotano ognuno su un proprio cerchio il cui centro non coincide con la Terra ma è, appunto, eccentrico a questa (Fig. 3). L’altro sistema, ugualmente geocentrico e geostatico, assume che il pianeta si muova su un piccolo cerchio — chiamato epiciclo — il cui centro a sua volta ruota su una circonferenza più grande — chiamata deferente (Fig. 4). In effetti l’idea di Ipparco è sorretta dall’intuizione geometrica che riduce, nella rappresentazione, la rotazione nello spazio ad un moto circolare nel piano, e.g. nel sistema omocentrico, come abbiamo già sottolineato, il pianeta è incastonato in un punto che giace sull’equatore della sfera la più interna e ruota al ruotare di quest’ultima; il che è del tutto equivalente ad assumere il cerchio equatoriale come epiciclo il cui centro a sua volta si muove sul deferente, la circonferenza più grande che coincide con l’equatore della sfera intermedia. 
Non è questo il luogo per entrare nei meandri degli eccentrici e degli epicicli, ed elencarne pregi e difetti. Ci basterà dire che, aggiungendo opportunamente qualche “ipotesi ad hoc”, i due modelli, proprio perché postulano una geometria piana, si prestano meglio al calcolo con carta, matita e compasso — laddove la geometria solida di Eudosso comporta l’uso di un astrario , macchina ben complicata da costruire e maneggiare. Aggiungiamo inoltre, e questo sarà l’argomento cruciale, che eccentrici ed epicicli spiegano tanto l’anomalia ellittica nel moto planetario tanto la variazione di luminosità, per via che entrambi comportano una variazione della distanza tra il pianeta osservato e la Terra.
Così, due secoli dopo Aristotele, il sistema omocentrico è ormai caduto in disuso presso gli astrologi o astronomi matematici; mentre, beninteso, i fisici o astronomi filosofi conservavano gelosamente la fisica dello Stagirita, che appariva loro la precondizione stessa se non per la calcolabilità certo per l’intelligibilità del mondo.
Non stupisce quindi che quando, volgendo ormai il secondo secolo della nostra era, trascorsi duecentosessanta anni dalla morte di Ipparco, apparirà, nella dotta Alessandria, in lingua greca, il libro di  Claudio Tolomeo “Megìste Sùntaxis” — più noto, non a caso, come “Almagesto”, corruzione araba della parola greca “megìste”, grande — del sistema omocentrico vi sarà solo qualche distratta menzione. La sostanziale omissione da parte dell’alessandrino del sistema di Eudosso, il maggiore matematico dell’antichità, è tanto più significativa perché la “Grande Sintassi” è, nell’intenzione stessa dell’autore, il primo trattato completo della scienza astronomica quale si era venuta sviluppando a partire da Egizi e Babilonesi.
Tolomeo è l’ultimo grande astronomo del mondo antico. La sua teoria, che usa eccentrici ed epicicli ai fini del calcolo, diverrà nettamente dominante tra gli astrologi, tanto quelli chini a disegnare minuziosi oroscopi per i potenti quanto quelli intenti a redigere approssimative tavole per i naviganti. Il suo grande trattato sarà integralmente tradotto in latino, aramaico, siriaco e, sei secoli dopo, in arabo; per non parlare dei compendi manoscritti dell’Almagesto talmente diffusi e frequenti da risultare di difficile numerazione. E questo per ben oltre un millennio.


M. Di Bono, Le sfere omocentriche di Giovan Battista Amico nell’astronomia del cinquecento, C.N.R. — Università di Genova, 1990. Questo esemplare saggio è l’unico commento completo che esista in letteratura sulla vita e l’opera dell’astronomo cosentino. Si rimanda il lettore al testo per una analisi rigorosa della geometria cosmica di Amico, nonché per le notizie biografiche.

Per dare un’ idea di questo ritardo, si pensi che, all’epoca di Amico, il Natale si celebrava il 25 di dicembre ma il solstizio d’inverno, che quella festa simboleggia, avveniva il 13 dicembre ( a Santa Lucia, il giorno più corto che ci sia, secondo il motto medievale); o ancora, l’equinozio di primavera capitava l’undici di marzo - sicché, continuando così, la Pasqua sarebbe divenuta una festa invernale ed il Natale una ricorrenza autunnale.

K.M. Pataturk, Opere inedite perché non stampate, né scritte e neppure pensate, 11- II-67, Valle Giulia, Roma,1968, p. 888.

Simplicius, De coelo commentaria, Heiberg, Berolini 1894, pp. 77-79.

V. Schiaparelli, Le sfere omocentriche di Eudosso, di Callipo e di Aristotele, in “Scritti sulla storia della astronomia antica”, v. 2, Zanichelli, Bologna, 1926,pp.6-106; L. Russo, La rivoluzione dimenticata, Feltrinelli, Milano 1998, pp. 259-61. B. RusselL, Storia della filosofia occidentale, TEA, Milano 2010, pp. 216-17. La cosa non deve stupire perché Eudosso non è certo un “realista ingenuo”, piuttosto spartisce con Gauss il titolo di massimo matematico dell’Occidente. Oltre alla teoria delle “sfere d’influenza”, a lui si deve la linea di fuga dalla “catastrofe dell’incommensurabile”, da quella condizione di panico nella quale era piombato il pensiero pitagorico dopo la scoperta , per auto poiesi, dell’irrazionale – scoperta che aveva scosso dalle fondamenta la confidenza dei matematici nell’uso della ” proporzione”, concetto cardine di ogni calcolo nell’antichità. Eudosso restaura l’antica fiducia dimostrando geometricamente che la definizione di grandezze  proporzionali non comporta che debbano essere tra loro commensurabili, condividano, cioè, una comune unità di misura. Infine, il matematico di Cnido inventa o almeno perfeziona il “metodo d’esaustione”, anticipando di un paio di millenni la teoria rigorosa del calcolo integrale, fabbricata in Europa da tedeschi e francesi, solo nel XIX secolo.